
Gli arresti domiciliari le furono revocati nel 1995, ma rimaneva comunque in uno stato di semi-libertà; non poté mai lasciare il Paese, perché in tal caso le sarebbe stato negato il ritorno. Anche ai suoi familiari non fu mai permesso di visitarla, neanche quando al marito Michael fu diagnosticato un tumore, che di lì a due anni, nel 1999, lo avrebbe ucciso lasciandola vedova.
Nel 2002, a seguito di forti pressioni delle Nazioni Unite, ad Aung San Suu Kyi fu riconosciuta un maggiore libertà d’azione in Myanmar, ma il 30 maggio 2003, il dramma: mentre era a bordo di un convoglio con numerosi supporters, un gruppo di militari aprì il fuoco e massacrò molte persone, e solo grazie alla prontezza di riflessi del suo autista, Ko Kyaw Soe Lin, riuscì a salvarsi. Ma fu di nuovo messa agli arresti domiciliari. Da quel momento, la salute di Aung San Suu Kyi è andata progressivamente peggiorando, tanto da richiedere un intervento e vari ricoveri.
Da quel tragico avvenimento, il “caso” Aung San Suu Kyi cominciò ad essere un argomento internazionale, tanto che gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea hanno fatto grosse pressioni sul governo del Myanmar per la sua liberazione; ma gli arresti domiciliari furono rinnovati per un anno nel 2005 e ulteriormente rinnovati nel 2006 e nel 2007.
Per il suo impegno a favore dei diritti umani, il 6 maggio 2008 il Congresso degli Stati Uniti le ha conferito la sua massima onorificenza: la Medaglia d’Onore.
Il 3 maggio 2009 un mormone statunitense, John William Yethaw, ha raggiunto a

L’11 giugno, Aung San Kyi è stata nuovamente condannata, questa volta a tre anni di lavori forzati per violazione della normativa della sicurezza che sono stati commutati poi, dalla Giunta militare, in 18 mesi di arresti domiciliari. Anche in questo caso, giusto in tempo per le elezioni politiche.
Verso le 17 locali di sabato scorso (11.30 circa in Italia) funzionari del regime birmano sono arrivati per leggerle l’ordine di liberazione della giunta militare. Ma le elezioni ormai si sono svolte e dunque lei non è, almeno momentaneamente, più un pericolo per il regime militare.
La storia della Birmania è da sempre molto travagliata: Invasa prima dai Mongoli, poi dai portoghesi durante il colonialismo, successivamente dai cinesi, poi dai britannici, infine dai giapponesi. Ottenne il riconoscimento dell’indipendenza nel 1948, con la nascita di una Repubblica, che portò però anche tensioni interne e guerriglie tra le minoranze. Poi arrivarono le sopracitate dittature militari, che hanno cambiato anche il nome dello Stato in Myanmar.

Una grande lezione morale ci è giunta nel settembre 2007 dai Monaci birmani, che in centinaia di migliaia marciarono pacificamente contro il regime. Alcuni dei quali anche uccisi o picchiati a sangue. Situazione simile anche nel Tibet, da oltre settant’anni colonizzato barbaramente dalla Cina. Uno Stato che ha fatto mostruosi passi in avanti dal punto di vista economico – principalmente sulla pelle dei più deboli e in barba al rispetto dell’ambiente – ma che dal punto di vista politico è rimasto a due mila anni fa.

Bellissima la frase che anticipa e posticipa il film: “Rossi come il sangue sono le terre e i monti di Birmania”. Speriamo che da sabato per i birmani qualcosa possa cambiare.