Alitalia, in arrivo ennesimo salvataggio ma con una beffa in più

L’eterna vertenza Alitalia torna nell’agenda politica di un Governo italiano. Come da un quarto di secolo a questa parte. Quando, a partire dagli anni ‘90, lo Stato ha messo in atto una costante dismissione dei propri immobili e delle proprie società. Al fine di far cassa e di alleggerire i costi. La privatizzazione di Poste Italiane o della SIP (poi diventata Telecom e successivamente Tim) sono solo gli esempi più importanti.

I governi hanno tentato di disfarsi pure di Alitalia, compagnia aerea di bandiera che opera dal 1946. Resa poi completamente privata nel 2009 passando in mano ad una cordata, diventando Alitalia-Cai (ma più per un sussulto nazionalista dell’allora Governo Berlusconi, pur di non darla alla francese AirFrance). Per poi tornare a partecipazione statale nel 2014 mediante amministrazione controllata.

Peccato che in 70 e passa anni, tra un passaggio di mano e l’altro, a rimetterci siamo stati sempre noi contribuenti. Visto che le passività dell’azienda pubblica sono state sempre collettivizzate. Il tutto, mentre abbondavano gli sprechi (tante ferie pagate e lussi per i dipendenti, assunzioni eccessive, ecc.) ed è mancato un adeguamento alle nuove esigenze imposte dal mercato. Ossia l’avvento delle compagnie low cost, con i loro contratti flessibili e i loro costi ridotti.

Oggi Alitalia è una compagnia malandata, di cui gli altri colossi sono interessati solo come spezzatino. Ossia alcune tratte specifiche e senza sobbarcarsi le passività, che resterebbero allo Stato italiano.

Ed ora il Governo Conte è chiamato all’ennesimo salvataggio. Che già sa di beffa, anzi, di doppia beffa. Perché ai già 9 miliardi spesi fino ad oggi per “salvarla” si aggiunge una notizia [sta_anchor id=”alitalia”]sconcertante[/sta_anchor].

Alitalia, nella nuova cordata anche i Benetton

alitalia foto

A spiegare bene il nuovo salvataggio-beffa di Alitalia è Dario Balotta, esperto di ambiente e trasporti, sul suo Blog su Il fatto quotidiano.

La soluzione in vista non è valida, innanzitutto perché non c’è la presenza forte e qualificata di un socio industriale. Quella di Delta è una partecipazione minoritaria e di facciata: lo Stato si accolla tutte le responsabilità (economiche, sociali e normative) diventando socio di maggioranza con il ministero dell’Economia e le Ferrovie, e dulcis in fundo è pronta a entrare nell’azionariato di Alitalia la Atlantia dei Benetton, che ha contenziosi ancora aperti proprio con lo Stato: il primo per le note vicende del ponte Morandi, per non parlare delle nuove tariffe autostradali impugnate da Aspi.

Sarà difficile prevedere se i Benetton che controllano gli aeroporti di Roma metteranno la lente sui ricavi da tariffa aeroportuale praticati a Fiumicino o sugli sconti da applicare al cliente Alitalia, che su cinque passeggeri ne imbarca o sbarca quattro nello scalo romano. Continuerà a tenere alte le già alte tariffe aeroportuali o le ridurrà? Qualsiasi strada scelga c’è una contraddizione “imprenditoriale” di fondo.

Inoltre, tutte le costose garanzie pubbliche decise in passato verranno prorogate ancora: l’adozione di una iniqua cassa integrazione d’oro e di lunga durata (sette anni) per piloti e assistenti di volo (alimentata da una tassa d’imbarco assurda di cinque euro a passeggero), il supporto degli aeroporti pubblici, i contributi per la continuità territoriale con la Sardegna e altro ancora.

Con i soldi spesi dal 2008 ad oggi si sarebbe potuto tutelare tutto il personale, accompagnandolo alla pensione o ricollocandolo nelle compagnie aeree che avrebbero preso il posto di Alitalia. Ma l’obiettivo dietro il pressing occupazionale era quello di tenere in vita una compagnia decotta, consociativa e predisposta a spese “facili”. Advisor, consulenti e banche d’affari hanno fatto festa – e non hanno ancora finito – per istruire pratiche (mai stati veri piani finanziari) che venivano smentite dai fatti il giorno dopo.

Infine, così come i Benetton – con l’acquisto di Autostrade prima e aeroporti di Roma poi – hanno condizionato i processi di regolazione (concessioni) del ministero dei Trasporti (tariffe, gestioni di appalti in house, manutenzioni e investimenti), inevitabilmente cercheranno di fare lo stesso nel settore del trasporto aereo. Con un prezzo pesante a carico dei contribuenti: la riduzione della concorrenza e della qualità dei servizi.

Ultimo ma non meno importante aspetto: il ruolo di Ferrovie non potrà che essere quello di mascherare aiuti pubblici e di accentuare il proprio ruolo di ammortizzatore sociale, come avvenuto con la recente acquisizione delle Ferrovie Sud-Est (in tre anni di gestione, Fs ha perso 2,4 milioni di passeggeri) a scapito della sua missione principale di vettore ferroviario.

Lo sanno bene i pendolari, che continuano a subire i disagi delle soppressioni, dei ritardi inauditi e dei convogli senz’aria condizionata.

Dunque, paradossalmente, i Benetton potrebbero entrare anche nel traffico aereo. Dopo aver monopolizzato quello su gomma. Il tutto, all’indomani di quanto accaduto con il ponte Morandi a Genova e delle minacce da parte dei Cinquestelle di togliergli la concessione di Autostrade. Pertanto, i Benetton non solo non lasciano, ma raddoppiano.

Per il resto, ho già detto come la penso su Alitalia in questo articolo.

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