QUARANT’ANNI DAL ’68…SUCCESSO O FALLIMENTO?

Son passati 40 anni dalla “rivoluzione culturale” del ’68, e l’anniversario è visto chiaramente in modo diverso da destra e da sinistra. Sono partiti convegni, dibattiti, pubblicazioni di libri, dichiarazioni, dove chi ha vissuto in prima persona quell’evento, o all’epoca era già troppo grande per farne parte attivamente, o è nato negli anni successivi (dando una sua visione “a posteriori”), critica quegli anni o li ritiene fondamentali per la vita democratica del nostro Paese.
Se la sinistra, che ha fatto propri quegli anni, ritiene che il processo innescato dal ’68 abbia dato frutti importanti quali lo Statuto dei lavoratori, la legge sull’aborto, quella sul divorzio, la legge sull’obiezione di coscienza, la riforma psichiatrica, il sistema universitario e scolastico meno “da caserma” e più anticonformista e rispettoso delle idee degli studenti stessi, la destra fa innanzitutto autocritica per aver lasciato alle sinistre la piazza, le officine della cultura, quali scuola ed università, la rivolta nelle fabbriche, scegliendo una forma di lotta più eversiva e violenta, quali le bombe e il piombo. Ma al tempo stesso ritiene che il 68 sia stato anche solo un fallimento, una sorta di “tanto rumore per nulla”, un semplice opporsi alle autorità (innanzitutto proprio ai genitori) senza però una motivazione di fondo.


Il dibattito si estende anche sugli estremismi politici, in particolare se il ’68 sia stato una causa della nascita dell’estremismo di destra con i suoi attentati bombaroli (per scongiurare il concretizzarsi di un Governo comunista o comunque di centro-sinistra), oppure un effetto proprio dell’estendersi dei regimi militari come era già accaduto in alcuni Paesi vicini al nostro, e quindi un opporsi al loro avvento anche in Italia. Del resto, siamo anche in piena Guerra Fredda e quindi entravano in gioco anche interessi internazionali delle due superpotenze di allora, USA e URSS.
Ma porsi questo dilemma è come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina…
Diciamo che il ’68 è stato importante perché almeno fino alla prima metà degli anni ’70 ha visto protagoniste le masse, che attraverso un movimento congiunto di studenti, operai ed il movimento femminista, ha messo in moto un fermento che ha “costretto” la classe politica di allora, influenzata fortemente dalla Chiesa e dallo spauracchio del regime sovietico che lasciava ai margini istituzionali sistematicamente il PCI, a mettere in piedi una serie di leggi di interesse sociale e di valore civile, come quelli elencati prima (lo Statuto dei lavoratori, la legge sull’aborto, quella sul divorzio, la legge sull’obiezione di coscienza, la riforma psichiatrica, la riforma del sistema universitario e scolastico), portando anche lo stesso PCI ad uno storico 36% nei consensi. Poi via via il fermento si affievolì, con un graduale abbandono alla lotta idealista e un sempre maggiore utilizzo della lotta armata, con le BR, Lotta continua e Prima Linea tra le più attive.
Dalla seconda metà degli anni ’70 l’estrema sinistra è ricordata solo per i vari assassini e sequestri di personaggi di spicco (su tutti Moro anche se non si esclude l’ombra della CIA, almeno nel suo assassinio finale), e lo stesso PCI scende sempre più nei consensi, lasciando il terreno allo PSI che negli anni ’80 raggiunge il suo apice del successo elettorale. Anzi, il PCI non si riprenderà più, affievolendo sempre più (anche per la fine dell’URSS) il suo peso parlamentare.
Quindi si può dire che “il ’68” è stato comunque importante, perché la sua concretezza è dimostrata dalle varie leggi varate, fino ad allora impensabili; ma il mancato punto di congiunzione tra il movimento civile e la politica, ha fatto sì che esso si perdesse nel tempo fino a trasformare il primo in una lotta idealista e vuota di contenuti, la seconda in qualcosa sempre più lontano dagli elettori. E ciò ha reso le generazioni successive meno propense alla lotta (diciamo quasi rassegnate) e i partiti di sinistra definitivamente condannati ad un ruolo di opposizione.

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