Rashaan Salaam, ultima vittima della CTE
CTE, le due ricerche recenti
Avvenire riporta lo studio condotto dal dottor Everett Lehman, del National Institute for Occupational Safety and Health di Cincinnati (Ohio), è giunto alla conclusione che
«i giocatori di football americano, muoiono tre volte più del resto della popolazione per malattie neurodegenerative in generale ».
La Gazzetta dello sport riporta invece lo scioccante annuncio fatto dai ricercatori della Boston University: il rischio di encefalopatia non è solo per i professionisti, ma per chiunque giochi a football americano. L’annuncio è arrivato dopo l’autopsia fatta sul corpo di un ragazzo di 25 anni, che aveva giocato a football fin da bambino, ma che al primo anno di college aveva smesso. L’autopsia ha confermato che il 25enne soffriva di encefalopatia traumatica cronica, fatto questo che ha spiegato così la parabola drammatica che ha accompagnato gli ultimi anni di vita di questo ex-giocatore non professionista. La Boston University School of Medicine ha spiegato che il ragazzo aveva subito più di 10 commozioni cerebrali in carriera, la prima quando aveva solo 8 anni. Durante il primo anno al college il giovane è stato vittima di un trauma alla testa in una partita, con la perdita momentanea di conoscenza. Un colpo che gli aveva lasciato mal di testa, dolore al collo e altri sintomi che includevano difficoltà mnemoniche e di concentrazione. Smise così di giocare, ma le sue condizioni sono peggiorate: la depressione e la dipendenza dalla marijuana, usata per lenire i forti mal di testa, l’addio al college. E alla fine, dopo due anni di violenze domestiche sulla sua giovane moglie, la morte per arresto cardiaco dopo un’infezione da staffilococco. Una morte dunque che va al di là dei tanti casi di professionisti coinvolti, direttamente o attraverso le loro famiglie (molti sono vittime di Alzheimer) : qui in ballo c’è il gioco stesso. Secondo uno dei ricercatori “dopo il secondo (di dieci!) colpi violenti il ragazzo si sarebbe dovuto dare al golf...”.
CTE, il male del football: le tante testimonianze drammatiche
Colpi violenti, a volte proibiti, come quel «cazzotto sul casco» che causò il primo trauma cranico di Rayfield Wright – ruolo offensive tackle, il protettore del quarterback – bandiera dei Dallas Cowboys. «Ne ho avuti così tanti di quei traumi che ho perso il conto… », ha dichiarato Wright ritiratosi nel 1979: oggi è un settantenne al quale è stata diagnosticata la Cte. A Kyle Turley, anche lui offensive tackle, classe 1945, nel 2007 quando era in forza ai Kansas City Chiefs venne diagnosticata la stessa malattia.
«Anch’io ho avuto diverse commozioni cerebrali frutto dei troppi traumi cranici. Dopo certe botte alla testa non ricordi molto – ha raccontato Turley – . Ci sono volte in cui colpisci un tizio e poi sei coinvolto in una mischia dove tutto finisce sottosopra. Sei confuso. E ci sono altre volte in cui parti dalla tua parte di campo, e vai su e giù, quindici, diciotto volte di fila. E ad ogni azione: scontro, scontro, scontro. Davvero, ci sono queste specie di esplosioni bianche – “bum, bum, bum” – e le luci diventano più fioche e chiare».
Un racconto drammatico in cui si sono riconosciuti quei 2mila giocatori e le loro famiglie che hanno avviato una class action contro la Nfl (National football league), responsabile secondo loro di aver taciuto in questi anni le informazioni relative ai possibili danni cerebrali correlati alla pratica professionale. Alla Nfl erano stati chiesti danni per 765 milioni di dollari, ma il giudice federale Anita Brody ha negato l’approvazione per il patteggiamento, perché dalle indagini sono emersi 20mila casi di giocatori che hanno avuto commozioni cerebrali in carriera:
«Per cui – ha sentenziato il giudice – quella cifra non riuscirà a coprire tutti gli atleti che hanno ricevuto una diagnosi medica, né le loro famiglie». La Nfl ha preso provvedimenti cautelari per diminuire il numero degli scontri di gioco, specie le «testate casco contro casco».
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In questo centro specialistico nel 2011 a Duerson avevano diagnosticato la malattia neurodegenerativa causata dalle botte in testa prese nel periodo in cui giocava a football. Così poi, anche i famigliari di Junior Seau hanno deciso di chiedere al centro di Boston di analizzare il cervello del figlio defunto. E su questo solco ecco l’ultimo dato impressionante: il 95% degli ex giocatori di football americano (87 su 91) che hanno donato il cervello alla ricerca scientifica è risultato positivo ad una patologia collegata ai traumi cranici.
«Questo è il football. Ti dicono che può capitarti sia di farti male che di infortunarti. Non esiste una via di mezzo. Se sei infortunato non puoi giocare, ma se ti sei fatto male puoi giocare eccome. Il discrimine fra queste due cose è la capacità di mettersi in testa un casco e un paraspalle», ha detto uno sconsolato Turley.
Un j’accuse che ha messo sulla strenua difensiva almeno il 40% (cifra da sondaggio) dei genitori americani, i quali fanno sapere di non avere nessuna intenzione di mandare più i loro figli a rischiare la salute, e forse anche di morire, su un campo da football.
CTE, non solo nel football
Sempre la succitata ricerca dell’Università di Boston ha sottolineato come la CTE non affligga solo i giocatori di football. Ma anche gli atleti di boxe e wrestling, che subiscono colpi meno violenti, ma più numerosi, i quali portano a microemorragie che alla lunga arrecano effetti devastanti. La dottoressa McKee: “Gli atleti sono solitamente più forti, più grandi, più veloci e i colpi sono dunque più violenti. E i danni sono più probabili e peggiori“.