Usa Vs Iran, cosa rischia Italia se scoppia guerra

Il 2020 non è iniziato nel migliore dei modi per la Pace nel Mondo. Come noto, Donald Trump ha ordinato l’eliminazione del generale Qasem Soleimani, numero due dell’Iran, capo dei Servizi segreti, nonché considerato uno degli uomini più influenti di tutto il Medio Oriente. Una mossa paragonabile, per intenderci, all’invasione dell’Iraq da parte delle truppe americane.

Del resto, lo stesso George Bush aveva inserito l’Iran tra i prossimi obiettivi militari dopo Iraq ed Afghanistan. E solo il mancato terzo mandato dovuto alla sua incandidabilità, nonché la sconfitta dei repubblicani in favore di Obama, hanno scongiurato una tale mossa.

Quest’ultimo – insignito del Premio Nobel per la Pace appena eletto, forse per spegnergli ogni pensiero bellico sul nascere – aveva intrapreso col paese iraniano un dialogo culminato con il Trattato sul nucleare del 2015.

Ma con l’arrivo di Trump alla Casa bianca, i rapporti con l’Iran sono tornati conflittuali. Il Tycoon ha infatti prima voluto l’uscita del suddetto Trattato da parte degli Usa, e poi ha imposto nuovi pesanti dazi ai danni del paese dello Ayatollah Khamenei.

Con l’uccisione di Soleimani il 3 gennaio scorso, mentre era a bordo di un auto in Iraq tramite drone, Trump ha soddisfatto in un sol colpo (è proprio il caso di dirlo) il suo elettorato sionista, la lobby delle armi e quella del Petrolio.

Vediamo meglio di seguito i principali motivi dietro l’attacco di Trump all’Iran e quali rischi corre [sta_anchor id=”iran”]l’Italia[/sta_anchor].

Usa Vs Iran motivi conflitto

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Il primo motivo va ricercato nel fatto chel’Iran è il paese con la maggiore presenza di sciiti nella sua popolazione. Insieme ad Iraq, Azerbaigian e Bahrein), principale avversario di Israele (lo Stato ebraico voluto dagli americani in Medioriente, anche e soprattutto per mettere becco in quell’area). Qui ho spiegato la differenza tra sunniti e sciiti.

Tant’è che dopo l’uccisione di Soleimani, quest’ultimo Stato è finito tra gli obiettivi dei siriani insieme agli Usa. Quindi, Trump ha fatto un bel favore agli amici sionisti, il secondo di rilievo dopo aver spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme.

La seconda ragione va ricercata nel fatto che un conflitto contro l’Iran innesterebbe la macchina militare per ora ferma “a folle”. Dato che fino a questo momento, Trump nel corso del suo mandato ha sostanzialmente preferito un disimpegno nelle questioni mediorientali.

Tanto che in Siria i players principali sono adesso proprio l’Iran, la confinante Turchia e la Russia (Putin è rimasto sempre pro-Assad). Oltrettutto, l’Iran ha assunto una posizione di prestigio anche in Iraq, come detto a maggioranza sciita. E l’Iraq è una porzione di territorio che gli Usa non intendono mollare a nessuno, avendo loro voluto per primi la cacciata di Saddam Hussein. Con tutto ciò che ne ha conseguito.

L’Iran è anche nemico dell’Arabia Saudita, principale alleato arabo degli americani. Considerato dai media mainstream non una dittatura e rispettoso dei diritti civili rispetto ad altri. Eppure, lì si frustano (se gli va bene) ancora i dissidenti e le donne non sono trattate con i guanti.

Del resto, è noto come l’economia americana basi molte delle sue fortune proprio sulla industria bellica. In particolare, dalla Seconda guerra mondiale in poi. Auto-inflaggendosi attentati o creando mostri qua e là per il Globo pur di mettere in moto la propria industria bellica. Il punto di non ritorno può essere individuato nell’attacco alla base militare di Pearl Harbor.

Infine, terzo motivo, occorre sfamare la lobby del petrolio. Come riporta Agi, è notizia dello scorso novembre che l’Iran abbia annunciato la scoperta di un maxi giacimento petrolifero che potrebbe aumentare di un terzo le riserve nazionali, una “buona notizia” per un Paese piegato dalle sanzioni economiche americane.

Il presidente, Hassan Rohani, lo ha presentato come “un piccolo dono del governo al popolo”. “Abbiamo trovato un giacimento di petrolio contenente riserve stimate in 53 miliardi di barili“, ha spiegato il capo di Stato in un discorso a Yazd, nel centro del Paese. Alle fine del 2018 le riserve del Paese erano di 155,6 miliardi di barili, secondo l’ultima edizione della “Statistical Review of World Energy” pubblicata dal gruppo BP.

Numeri che classificavano l’Iran al quarto posto nel mondo alle spalle di Venezuela, Arabia Saudita e Canada. La notizia, se confermata, probabilmente gli farebbe guadagnare un ulteriore posto in classifica.

Il giacimento, largo 2.400 chilometri quadrati e profondo 80 metri, si estende secondo Rohani “da Bostan a Omidiyeh“, due città nella provincia del Khuzestan, nel sud-ovest.

La scoperta potrebbe rappresentare una boccata d’ossigeno per l’economia iraniana, in forte sofferenza. Secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, il Pil quest’anno crollerà del 9,5%.

Nel quotidiano, gli iraniani fanno i conti con un’inflazione a doppia cifra, che sta gradualmente diminuendo, e una svalutazione del rial, che aumenta considerevolmente il prezzo delle importazioni.

Celebrando la “buona notizia“, Rohani ha garantito che l’economia iraniana si sta già stabilizzando:

“La nostra gente ha attraversato giorni difficili l’anno scorso ma penso che l’America ora non ha più speranza. Oggi annunciamo all’America che siamo una nazione ricca e che nonostante la vostra ostilità e le vostre sanzioni crudeli, i lavoratori e gli ingegneri petroliferi iraniani hanno scoperto questo magnifico campo”

e gli Usa non sono rimasti a guardare. Dal 1979, l’Iran è uno stato sovranista, indipendente, che ha cacciato la monarchia dispostica della famiglia Pahlavi e instaurato una Costituzione ispirata alla legge coranica (shari’a).

Quindi, governa in modo indipendente le proprie risorse, ma non ha mai condotto una politica estera espansionistica ed aggressiva. Sebbene Trump, e in Italia Salvini, dipingano Soleimani come un terrorista. Quando in realtà l’Iran è stato tra gli artefici della sconfitta dell’Isis, creato per giunta dagli Usa.

Conflitto Usa e Iran rischi Italia

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Cosa rischia l’Italia qualora la situazione tra Usa e Iran dovesse degenerare? Come riporta Ispi, la reintroduzione delle sanzioni che erano state sospese nel 2016 prima, l’uscita dagli accordi sul nucleare poi, l’inasprimento delle sanzioni ancora, e l’uccisione di Soleimani ora volute da Trump, hanno ripercussioni per l’Ue e per l’Italia.

Anzi, il nostro Paese in primis tra quelli europei. Infatti, l’Italia è il primo partner commerciale di Teheran tra i paesi europei, con un interscambio in crescita del 97% nel 2017 rispetto al 2016. A rischio ora sono anche i numerosi Memorandum of Understanding (MoU) per un valore di oltre 20 miliardi di euro siglati da Italia e Iran dal 2015 a oggi.

Nel 2017 l’Italia si è affermata come primo partner commerciale dell’Iran tra i paesi dell’Unione europea, seguita da Francia e Germania. L’interscambio tra Italia e Iran è cresciuto del 97% rispetto al 2016 arrivando a quota 5 miliardi di euro, mentre Francia e Germania seguono rispettivamente a 3,8 e 3,3 miliardi.

In particolare, l’Italia rappresenta per l’Iran il primo partner UE per le importazioni (3,4 miliardi di euro), quasi totalmente nel settore petrolifero, e il secondo partner UE per esportazioni (1,7 miliardi) dopo la Germania (2,9 miliardi). Tra il 2013 e il 2016 a ricoprire il ruolo di primo partner commerciale per Teheran era stata invece Berlino, grazie a un maggior export che ancoraoggi è il primo in Europa.

A livello europeo, superando Francia e Germania, nel 2017 l’Italia ha dunque recuperato e superato la quota di interscambio con l’Iran precedente le sanzioni (3,6 miliardi nel 2012), pur non riuscendo a raggiungere il picco del 2011 in cui si superarono i 7 miliardi di euro.

E’ interessante tuttavia rilevare che le sanzioni hanno influito sull’interscambio Italia-Iran soprattutto in termini di import, per via dello stop obbligato all’acquisto di petrolio iraniano imposto dall’UE nel 2012; l’export italiano è invece sempre rimasto sopra il miliardo di euro, variando in misura minore rispetto alle importazioni.

Ancora oggi, quasi doppiando il valore dell’export, le importazioni petrolifere ricoprono gran parte dell’interscambio (due terzi). La firma del JCPOA nel 2015, e la conseguente sospensione delle sanzioni, ha aperto significative possibilità in termini di aumento potenziale dell’interscambio tra Italia e Iran e degli investimenti verso Teheran.

Nel gennaio 2016, subito dopo l’entrata in vigore del JCPOA, il presidente iraniano Rouhani aveva scelto l’Italia come primo paese UE per una visita di stato. In occasione della visita di Rouhani, Italia e Iran avevano firmato Memorandum of Understanding (MoU) per un totale stimato di circa 20 miliardi di euro. Molti di questi sono rimasti allo stato di MoU a causa dei grandi ostacoli nel settore dei finanziamenti dovuti ancora una volta al permanere in vigore delle sanzioni primarie USA e di quelle secondarie non relative al nucleare.

Per la copertura finanziaria di questi grandi progetti è infatti necessario il coinvolgimento di grandi gruppi bancari, in grado di coprire il fabbisogno di liquidità. Grandi gruppi bancari che però, a causa della loro contemporanea esposizione verso il mercato USA, non possono compiere transazioni verso l’Iran pena il rischio di incorrere nelle sanzioni del Tesoro americano.

A sanare in parte questo problema è intervenuto nel gennaio 2018 il ministero dello Sviluppo Economico, con la firma di un Master credit agreement del valore di 5 miliardi di euro a copertura dei contratti. Altri MoU sono invece evoluti in veri e propri contratti, sui quali si allunga oggi lo spettro del ritorno delle sanzioni.

Gli altri paesi che hanno negoziato l’accordo sul nucleare (Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania) hanno però manifestato una evidente contrarietà nei confronti della nuova politica statunitense verso l’Iran, che mette gravemente in pericolo un accordo di limitazione dello sviluppo di armi nucleari, il cui funzionamento è stato più volte accertato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica.

Il passo indietro di Washington sull’intesa, in particolare, ha gettato un’ombra sulle relazioni transatlantiche, già messe alla prova da Trump nei mesi scorsi. L’assassinio del numero due iraniano ha fatto il resto.

A ciò aggiungiamoci, ovviamente, il caro benzina. Il prezzo del petrolio sta già volando alle stelle, anche perché il settore industriale è preoccupato dal fatto che l’Iran potrebbe colpire gli impianti di petrolio e gas lungo il Golfo Persico, importanti per gli Stati Uniti e i loro alleati della regione.

Ma non è solo una questione economica. Un altro rischio è di natura squisitamente militare. Come sottolinea Money, la presenza di numerose basi americane sul nostro territorio, per esempio, è uno degli elementi cruciali per comprendere la portata del nostro coinvolgimento. Le notizie più aggiornate, infatti, raccontano di una serrata mobilitazione delle forze militari USA già dalla serata del 31 dicembre.

Il ponte aereo che congiunge Stati Uniti a Medio Oriente, sorvolando proprio la complessa regione del Mediterraneo, dove si colloca anche per l’Italia, è attivo più che mai. Il passaggio di jet americani con rifornimenti militari sta aumentando la sua intensità.

Il nostro Paese è stato subito coinvolto. La base USA di Aviano, considerata un appoggio strategico per le operazioni di Washington, ha già visto l’atterraggio di cisterne e velivoli di trasporto. La preparazione di questo materiale potrebbe servire per l’unità d’assalto della 173esima brigata di Vicenza. Quest’ultima ha giocato spesso un ruolo di spicco nelle operazioni militari USA in Medio Oriente, tanto che viene chiamata la punta di lancia.

L’Italia, crocevia strategico verso l’area mediorientale e alleata fedele della potenza americana, potrebbe trovarsi coinvolta in modo ancora maggiore. Le installazioni e le basi statunitensi nel nostro Paese, infatti, sono molte e vitali per raggiungere l’area mediterranea.

Non solo, considerando i rapporti tesi tra USA e Turchia – Erdogan sempre più attivo in Siria e in Libia e vicino alla Russia – l’amministrazione Trump potrebbe decidere di intensificare l’uso delle basi italiane invece al posto di quella turca di Incirlik. Quest’ultima, fondamentale per raggiungere l’Iran, potrebbe essere osteggiata dal presidente turco in chiave antiamericana.

Una partita molto complessa sta per giocarsi anche in Libia. Lo Stato è fallito, l’unità territoriale non esiste più e, dopo l’approvazione dell’intervento militare turco al fianco di al Serraj una battaglia allargata contro l’esercito dei ribelli di Haftar è dietro l’angolo.

L’Italia rischia su diversi fronti se l’escalation libica esplode in una vera e propria Terza Guerra Mondiale. Nonostante l’appoggio al Governo di al Serraj – l’unico riconosciuto a livello internazionale, anche se non in modo unanime – il nostro Paese preferirebbe mantenere una posizione di neutralità.

Poi, c’è la questione dell’immigrazione. Lo scoppio di un conflitto allargato a potenze internazionali farebbe precipitare l’emergenza sfollati, con molta probabilità di intensificare gli sbarchi sulle nostre coste di libici in fuga.

Gli Usa hanno basi militari in quasi tutte le regioni italiane (eccetto Valle d’Aosta, Marche, Molise e Basilicata). Volerci aiutare contro i nazi-fascisti aveva i suoi bei motivi.

Ed in tutto ciò, non contiamo nulla

A completare il quadro ci si mette il fatto che, malgrado la nostra esposizione in prima linea sul fronte mediterraneo e mediorientale, nei negoziati non contiamo nulla. Sui Social circola un meme di una riunione tra capi di Stato e sullo sfondo si vede il Ministro degli esteri Luigi Di Maio nelle vesti di sorridente venditore di bibite da Stadio. Ecco, forse il nostro ruolo sarà quello di servire loro bevande mentre trattano.

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