Uno studio suggerisce che l’assunzione di etanolo da parte di animali selvatici avvenga in maniera regolare e possa avere benefici
Le festività sono ormai prossime e, come sempre capita in questo periodo, il consumo di alcol (o, più precisamente, etanolo) schizza alle stelle, favorito da pasti abbondanti e convivialità.
Ma non sono solo gli esseri umani a consumare etanolo ed esserne inebriati: anche vari animali selvatici lo assumono attraverso frutta fermentata e nettare, portando a volte all’insorgere di situazioni goliardiche.
Certo, nella maggior parte dei casi la frutta fermentata naturalmente raggiunge una gradazione alcolica appena dell’1-2%, ma sono state rilevate concentrazioni anche oltre il 10%, ad esempio in frutti troppo maturi delle palme panamensi.
Finora, però, si presumeva che l’assunzione non umana di etanolo fosse rara e per lo più accidentale; ora invece un gruppo di ecologhe sfida tale presunzione, suggerendo che essa avvenga al contrario in maniera regolare.
Per chi non lo sapesse, il glucosio, ovvero lo zucchero che utilizziamo nel nostro metabolismo, altro non è che un polialcol.
Per verificare la mia affermazione basta che guardiate la struttura chimica della molecola e rendervi conto che è ricca di gruppi -OH cioè idrossilici, ma nonostante ciò non ha la stessa influenza dell’alcol sull’organismo.
L’alcol è una molecola molto labile e in natura non partecipa ad alcun processo biochimico ricorrente , se non per la degradazione degli zuccheri verso gli acidi e da questi poi ai lipidi, che sono molto più stabili chimicamente.
L’alcol infatti nei miei studi universitari era inserito nel libro della chimica organica prima, in quello della fisiopatologia poi ed in quello delle patologie cliniche alla voice dipendenze.
Infatti l’alcol, parliamo di quello etilico, il più consumato, non viene digerito come tutte le sostanze tossiche, ma attraversa la barriera gastrica agevolmente, grazie alla sua struttura amfipatica, giungendo in seconda battuta al fegato dove viene degradato tramite l’alco deidrogenasi ad aldeide e questa poi ad acido grasso, solitamente trigliceride, che può come tale essere immesso nei cicli biochimici dell’organismo e utilizzato come fonte perfino di calorie.
L’alcol è quindi una sostanza spuria che impegna l’organismo nella sua eliminazione creando enzimi che normalmente non sono presenti negli epatociti e, nel caso venisse utilizzato cronicamente, può provocare oltre che un danno epatico evidente, anche alterazioni psichiche non indifferenti, fino alla franca dipendenza.
Non ne parlerei in termini così entusiastici, coltivando il mito di una sostanza che ha fatto milioni di morti e altrettante problematiche sociali.
Francesca Silvana Scoppio medico chirurgo specialista in medicina interna.