Una riforma che portò in un limbo tanti italiani, i quali non potevano andare ancora in pensione. I cosiddetti esodati. Più precisamente, come spiega Linkiesta, gli esodati sono coloro che hanno interrotto il proprio rapporto di lavoro in conseguenza di accordi di ristrutturazione aziendale o crisi aziendali, ma che non hanno ancora diritto alla pensione per via di un innalzamento dell’età pensionabile o di una modifica dei requisiti per accedere al trattamento pensionistico.
È dunque un sottoinsieme di disoccupati, per lo più over 50, che si trova senza stipendio per lunghi periodi. Nella maggioranza dei casi di tratta di persone che hanno dato le dimissioni in cambio di un incentivo economico nell’attesa di raggiungere l’età della pensione, ma che hanno visto allungarsi il periodo di tempo di attesa per ottenerla.
Sono quelli che avrebbero dovuto maturare i requisiti per andare in pensione nel 2012 (con possibilità di pensionamento dal 2013 in poi) e che in virtù di questo hanno accettato il cosiddetto “esodo volontario”.
Detto ciò, finalmente la cosiddetta Quota 100 è diventata legge. Vediamo cos’è e come [sta_anchor id=”quota”]funziona[/sta_anchor].
Quota 100 cos’è
Cos’è Quota 100? Come dice il nome stesso, si tratta di una sommatoria tra gli anni lavorativi e l’età del contribuente. Sebbene per quest’ultimo dato la cifra minima è 62. Quindi, occorrerà avere un’età minima di 62 anni e, in virtù di ciò almeno 38 anni di contribuzione. E così via.
Quota 100 come funziona per dipendenti pubblici e privati
Come funziona Quota 100? A spiegarlo è IlSole24Ore. Per i lavoratori del settore privato, la quota 100 (62 anni di età + 38 anni di contributi) prevede finestre trimestrali mobili di uscita. Per chi ha maturato i requisiti entro il 2018 la prima finestra si aprirà comunque il 1° aprile del 2019. La platea interessata è di circa 190mila lavoratori anche se il governo stima un’adesione all’85 per cento.
Dal confronto realizzato dall’Ufficio parlamentare di Bilancio risulta che coloro che nel 2019 soddisfano i requisiti per usufruire di quota 100 potrebbero andare in pensione con un anticipo medio poco inferiore a 2,5 anni rispetto alla prima uscita utile che per loro si aprirebbe a normativa invariata (pensione di vecchiaia, pensione anticipata e uscita per lavoratori precoci).
I beneficiari di quota 100 non potranno cumulare la pensione con redditi di lavoro fino ai 67 anni di età: il tetto è di 5 mila euro l’anno per i redditi di lavoro occasionale.
La platea di quota 100 in ambito pubblico è di oltre 156mila dipendenti (anche per loro si stima un’adesione all’85%). La prima finestra utile è fissata al 1° agosto, con un mese di ritardo rispetto alla soglia di luglio ipotizzata inizialmente. Potranno usare questa solo gli statali che avranno maturati i requisiti per quota 100 entro la data di entrata in vigore del decreto. Chi li matura dopo conseguirà il diritto alla decorrenza del trattamento dopo sei mesi.
Per i lavoratori della scuola la prima possibilità di uscita è fissata al 1° settembre, in linea con l’inizio dell’anno scolastico.
Si ricorda che la misura – sia per i lavoratori privati sia per quelli pubblici – è sperimentale per il triennio 2019-2021, ma chi matura i requisiti entro il 31 dicembre 2021 potrà uscire anche dopo. Per i dipendenti pubblici che andranno in pensione, ha detto il vicepremier Matteo Salvini, «ci sarà la possibilità di avere subito il trattamento Tfs, fino a un importo di 30mila euro».
Opzione donna e Ape volontaria e solidale
Non solo Quota 100 però nella riforma delle pensioni. Nel pacchetto pensioni del Governo c’è anche la proroga per il 2019 di “opzione donna”: con 58 anni di età e 35 di contributi le lavoratrici (59 se autonome) potranno avere una pensione ricalcolata con il solo criterio contributivo e decorrenza posticipata di 12 mesi (18 per le autonome).
Non potranno invece utilizzare la quota i lavoratori coinvolti in piani di isopensione (forme di accompagnamento alla pensione di vecchiaia o anticipata interamente a carico delle aziende con più di 15 addetti introdotte dalla legge 92/2012, si veda più avanti) che prevedono la possibilità di accordi per uscita a carico totale del datore di lavoro.
Una possibilità ancora sul tavolo resta l’anticipo pensionistico (Ape) volontario: che nella declinazione “aziendale” prevede che la dote possa essere fornita dal datore di lavoro privato indipendentemente dal numero di dipendenti e senza nessun accordo sindacale, d’intesa e a favore del singolo lavoratore che accede a un Ape volontario. Il lavoratore potrà così ricevere un assegno ponte per un massimo di 43 mesi prima della pensione di vecchiaia, alimentato con un prestito che sarà poi restituito con rate ventennali trattenute sulla futura pensione. La platea è quindi quella dei lavoratori dipendenti che abbiano almeno 63 anni di età e almeno 20 anni di contributi e che distino dalla sola pensione di vecchiaia non più di 3 anni e 7 mesi.
È attesa poi la proroga per tutto il 2019 della sperimentazione dell’Ape sociale, ossia il prestito-ponte finanziato dallo Stato per consentire il pensionamento ai lavoratori che rientrano in particolari categorie ai quali mancano solo 3 anni al raggiungimento dei requisiti. Le categorie ammesse sono quattro: disoccupati che hanno concluso l’indennità di disoccupazione da almeno 3 mesi con 30 anni di contributi; lavoratori che assistono familiari conviventi di 1° grado con disabilità grave da almeno 6 mesi con 30 anni di contributi; lavoratori con invalidità superiore o uguale al 74% con 30 anni di contributi; lavoratori dipendenti che svolgono un lavoro ritenuto pesante (e lo hanno svolto per almeno 6 anni negli ultimi 7) con 36 anni di contributi.
Per questi lavoratori è possibile anticipare la pensione con 63 anni di età e 30 o 36 anni di contributi. Le lavoratrici madri possono beneficiare di un anno di sconto dei requisiti contributivi per ogni figlio fino a un massimo di due anni.
Per un quadro completo della riforma rimando al link di cui sopra.
Quota 100 conviene?
Sempre IlSole24Ore fa sapere che però utilizzare quota 100 – almeno 62 anni di età e 38 di contributi – per andare in pensione cinque anni prima rispetto al trattamento di vecchiaia comporta un taglio di circa un quarto dell’assegno previdenziale lordo. Se si sceglie una delle possibili soluzioni intermedie – per esempio, se si va in pensione sfruttando sempre quota 100, ma a 64 anni di età – il taglio è sensibilmente inferiore e oscilla tra il 12 e il 16% negli esempi che Aon ha elaborato per Il Sole 24 Ore.
Sono stati considerati sei lavoratori, tutti con prima iscrizione all’Inps all’età di 24 anni e differenti carriere che determinano retribuzioni annue lorde all’età di 62 anni comprese tra 30mila e 150mila euro, rappresentativa di diverse categorie contrattuali (impiegato, funzionario, manager).
Decidere di smettere di lavorare a 62 anni, quindi con i due requisiti minimi di quota 100 (62 anni di età e 38 di contributi), comporta la rinuncia al 22% della pensione, a fronte di un’ultima retribuzione annuale di 30mila euro rispetto a quanto si incasserebbe accedendo al pensionamento di vecchiaia a 67 anni di età; si sale al 28% se la retribuzione è di 150mila euro.
Esempi di pensione incassata in base all’età del pensionamento: a 62 anni o 64 anni utilizzando “quota 100” o a 67 anni (vecchiaia). Importi lordi in euro. Età di prima iscrizione all’Inps, 24 anni; prima retribuzione annua lorda di 15.000 euro; valori in euro in termini reali, cioè al netto dell’inflazione. (Fonte: elaborazioni Aon)
Ciò è dovuto al fatto che da 62 a 67 anni, continuando a lavorare, si aumenta il montante contributivo e inoltre, al momento del pensionamento, si beneficia di un coefficiente di trasformazione più vantaggioso. Per effetto della riforma previdenziale del 2011, a prescindere dal sistema di calcolo a cui si è soggetti (ex retributivo, misto, contributivo), i contributi versati dal 2012 sono convertiti in pensione in base al sistema contributivo, che premia la maggiore età e l’ammontare del montante accumulato. Oltre a ciò, un certo impatto è prodotto anche dall’eventuale incremento delle retribuzioni percepite dopo i 62 anni.
Soprattutto chi ha redditi bassi, dunque, deve soppesare adeguatamente se sfruttare quota 100: potrebbe rischiare di avere un assegno previdenziale insufficiente o comunque non adeguato al tenore di vita mantenuto durante gli anni di lavoro.
Questo “rischio” viene evidenziato dai tassi di sostituzione (cioè il rapporto tra la prima rata di pensione annua lorda maturata e l’ultima retribuzione annua lorda percepita) pubblicati. Variano da circa il 60% per i profili di carriera meno dinamici, a circa il 40% per quelli più brillanti. Proseguendo l’attività fino a 67 anni, invece, la pensione lorda sarà pari al 50-70% dell’ultima retribuzione.
Si tratta comunque di una scelta che va ben soppesata. Ed è giusto che ci ci sia.