Perché arabi non investono nel calcio italiano

Da diversi anni ormai, l’economia italiana è diventata il Supermarket delle potenze mondiali. Soprattutto nel settore agroalimentare e in quello del lusso. America, Russia, Cina, Francia, Medioriente stanno facendo razzia dei nostri fiori all’occhiello. Vuoi per la nostra sempre minore capacità imprenditoriale, vuoi perché questi paesi hanno sistemi socio-economici diversi, che consentono di aggredire il mercato straniero.

E’ la Globalizzazione, bellezza. Quella che ad inizio anni ‘90 veniva vista come il fenomeno che avrebbe salvato il mondo. Avvicinato i popoli, mescolato le culture, ridotto il gap economico tra paesi ricchi e poveri.

Ed invece, il gap è aumentato a dismisura. Il pesce grande lo è diventato ancora di più, finendo per inghiottire con ancora più facilità quello piccolo. Le identità nazionali e particolari si stanno via via smarrendo.

Non fa eccezione di ciò il calcio italiano. Basta vedere le cosiddette “sette sorelle”. Tre delle quali finite in mano straniera (Roma e Fiorentina in quelle americane, Inter in quelle cinesi), mentre una quarta, il Milan, ci ha provato. Ma l’acquirente si è rivelato un farlocco (il sedicente Mr Bee).

La Juventus, invece, sebbene abbia la sua sede sportiva ancora a Torino, è gestita da una società che di italiano ormai non ha quasi più nulla. Per effetto delle politiche di Marchionne. Capace di vendere un pacco agli americani e far nascere la Fiat Chrysler. Che ha la sede legale ad Amsterdam e quella fiscale a Londra. E, non in ultimo, produce buona parte delle sue auto fuori dall’Italia.

Vedremo quanto poi resisteranno i casarecci De Laurentiis e Lotito, come noto rispettivi Presidenti di Napoli e Lazio.

Ma il punto di domanda qui è un altro: perché gli arabi non investono nel calcio italiano? Mentre lo fanno massicciamente in altri contesti europei? Scopriamolo di [sta_anchor id=”arabi”]seguito[/sta_anchor].

Perché gli arabi non investono nel calcio italiano

perchè arabi non investono nel calcio italiano

A fornirci una risposta ci prova Today. Che a sua volta cita EastonLine.

L’Italia è fuori dal giro per ragioni prettamente economiche. Oltre a riscuotere sempre meno seguito all’estero, e a non avere stadi di proprietà (con l’eccezione Juventus), il calcio italiano sconta anche le diverse problematiche che vanno ben al di là del settore. Uno degli ostacoli principali è costituito infatti da un sistema fiscale e contributivo e giudiziario considerato tra i meno incentivanti in Europa.

Solo il Milan per ora si gode i milioni della sponsorizzazione con Emirates. Avendo firmato nel 2014 un nuovo accordo di sponsorizzazione con Emirates della durata di 5 anni: 17 milioni a stagione più 3 milioni di bonus.

Ma non c’è traccia di società di calcio italiane su cui abbiano messo gli occhi ricchi investitori del mondo arabo sunnita.

Secondo un’altra interpretazione invece il problema dell’Italia è “religioso“: siamo un paese cattolico, sede del Vaticano e questo striderebbe con la religione musulmana dei possibili investitori: chiacchiere da bar, senza riscontro.

Anche la Germania sembra per ora arabian free. Motivo? In Bundesliga sono state le normative stringenti a fare da deterrente: nessun investitore privato può possedere più del 49 per cento delle quote di un club, e ai fondi sovrani con capacità di spesa illimitata piace avere le mani libere. Del resto, si sa, i tedeschi come i francesi sanno come proteggere gli interessi nazionali.

Insiste invece sui motivi economici il sito EastWest. L’Italia invece è fuori dal giro per ragioni prettamente economiche. Oltre a riscuotere sempre meno seguito all’estero, e a non avere stadi di proprietà (con l’eccezione Juventus), il calcio italiano sconta anche le diverse problematiche che vanno ben al di là del settore. Uno degli ostacoli principali è costituito infatti da un sistema fiscale e contributivo e giudiziario considerato tra i meno incentivanti in Europa.

Dunque, gli arabi non investono in Italia per il nostro disincentivante regime fiscale. Ma probabilmente anche per motivi religiosi.

Perché Qatar investe tanto nel calcio

 

Ma un’altra domanda che ci si pone è perché il Qatar sta spendendo tutti questi soldi nel calcio. Basti pensare che nel 2022 ospiterà addirittura i Mondiali – assegnati tra le polemiche (accuse di corruzione, pressioni economiche, denunce sul lavoro minorile) – mentre il Paris Saint-Germain è dal 2010 è di proprietà di una società fondata dall’emiro Tamim bin Hamad al-Thani, capo di stato del Qatar.

Il Qatar, considerato più “moderno” dell’Arabia Saudita, ha con Riyad un legame strettissimo: è un partner economico e politico molto ambito da cui farsi rappresentare nei consessi internazionali. La penetrazione del mondo islamico nello sport di alto livello in Francia (paese con quasi 7 milioni di musulmani su 68 milioni di abitanti) è concentrata ovviamente quasi esclusivamente a Parigi, città che il Qatar attraverso il suo fondo o con altre società di fatto “possiede”: grandi alberghi, centri commerciali, palazzi di lusso, svariati progetti immobiliari. Lo sport aiuta a dare “un’immagine rassicurante” di quella che secondo alcuni è un’invasione finanziaria.

Il primo decennio di questo secolo è stato caratterizzato nel mondo arabo a livello politico dall’affermarsi dell’influenza sciita: da Hezbollah in Libano, passando per l’Iraq post-Saddam, fino alla Siria pre-guerra civile, alleato di ferro dell’Iran. Oggi invece assistiamo al rafforzamento del potere sunnita nel mondo arabo. E anche il calcio è volente o nolente parte di questa strategia.

In un’epoca in cui non apparire significa non esistere, la visibilità assicurata dalle più importanti e prestigiose squadre di calcio del mondo (che hanno milioni di tifosi in tutti e cinque i continenti) garantisce un’influenza a livello globale impareggiabile. Ma non solo: lo sport diventa anche una leva per creare ulteriori, infinite, nuove opportunità di business.

Un esperto di Qatar, che ha chiesto l’anonimato, nel 2012 diceva al sito Play The Game:

“Il Qatar ha bisogno di tutto questo per sopravvivere. Ha bisogno di essere in tutto il mondo per compensare la sua posizione geo-politica di vulnerabilità”.

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