L’ITALIA DEI VALORI NON RIESCE ANCORA AD ANDARE OLTRE DI PIETRO
Lo scorso weekend si è tenuto il Congresso dell’Italia dei valori, con il quale è stato rieletto Presidente, manco a dirlo, il suo fondatore Antonio Di Pietro.
L’unica mozione concorrente è stata quella dell’onorevole napoletano Francesco Barbato, la quale prevedeva un cambiamento organizzativo del partito, con vere primarie aperte per l’elezione del Presidente, ed un rinnovamento globale degli organi del partito stesso, con una massima apertura politica ai movimenti e alla società civile e contro tutte le strutture di potere precostituite dai signori delle tessere locali.
Luigi De Magistris, altro ex PM che molti danno in concorrenza con Di Pietro e come colui che lo starebbe scalzando in popolarità e simpatia negli elettori, ha invece appoggiato la mozione di Di Pietro, sebbene nel suo intervento, abbia dimostrato delle linee divergenti con quest’ultimo, come ad esempio la sua idea di un partito che si apra maggiormente ai movimenti provenienti dalla piazza e dalla rete, oltre che alle sinistre; una divergenza alquanto netta se si considera il fatto che Di Pietro nel suo discorso di sabato abbia rimarcato la necessità del partito di cominciare a non essere più solo un partito “della piazza”, e che diventi alleato leale con il PD a partire proprio dalla scelta di appoggiare De Luca come candidato alla Regione Campania; scelta quest’ultima molto avversa a De Magistris, il quale ha definito il Sindaco di Salerno parte di un “sistema di potere clientelare”.
Al di là di queste divergenze interne, che sono normali e direi anche giuste in un partito in crescita costante di consensi, la vera questione per l’IDV è che il Congresso ha palesato il fatto che il partito non riesca ad andare oltre il suo fondatore, a ormai 12 anni dalla sua nascita (nato dalla Lista Di Pietro); questione palesata anche dal fatto che nel simbolo del partito è presente ancora il suo nome.
Una dimostrazione di indipendenza dal suo fondatore, che sarebbe anche opportuna vista la sorprendente ascesa elettorale degli ultimi anni: dal 2,4% del 2006 è passato al 4,3% del 2008, fino all’8% del 2009.
Certo, la dipendenza dei partiti ad un solo leader che ne muove i fili e mette esclusivamente la propria faccia, appartiene anche ad altre principali formazioni politiche italiane: nel PdL inutile dire chi muove i fili e gestisce unicamente il partito, mentre nell’UDC il ruolo di manovratore esclusivo è affidato a Casini. Nel Partito democratico invece c’è la situazione opposta, visto che nessuno riesce ad imporre la propria leadership (un problema che investe la sinistra da un quarto di secolo, con la scomparsa di Berlinguer), mentre forse l’unico partito che è cresciuto nei consensi e che è andato oltre il suo fondatore iniziale, è proprio quello della Lega, che oltre a Bossi (negli ultimi anni messosi un po’ da parte anche per le sue precarie condizioni fisiche), ha altri leader carismatici, quali Maroni, Tremonti e Calderoli, che negli ultimi anni hanno anche corretto il loro modo di fare politica, meno campanilistica e più istituzionalizzata, complici anche gli anni trascorsi a svolgere alte cariche.
In questa personalizzazione della politica l’Italia paga comunque quell’americanizzazione nel fare politica che pone forte attenzione sui leader più che sui programmi; fenomeno ormai vigente dalla fine della prima Repubblica, con la scomparsa dei partiti di massa e un maggiore peso della TV nell’arena politica.
Comunque, ritornando all’IDV, il partito in sede congressuale ha anche approvato un programma di 11 punti che tocca varie questioni aperte e irrisolte del nostro Paese; a dimostrazione che il partito non si occupa solo di giustizia come i media e il Governo vogliono far credere alle masse. Il programma è stato anche pubblicato in dettaglio sul sito a testimoniare la trasparenza del partito.