INGMAR BERGMAN, IL REGISTA DELL’ANIMO UMANO

SVEDESE, HA AFFRONTATO NELLA SUA LUNGA CARRIERA GLI INTERROGATIVI E LE INQUIETUDINI CHE L’UOMO AFFRONTA NEL CORSO DELLA SUA VITA
Ingmar Bergman può essere considerato il Giacomo Leopardi del Cinema. Come il tormentato poeta marchigiano nei suoi versi, questo regista di origini svedesi ha affrontato nella sua lunga carriera i dubbi e le inquietudini che tormentano l’animo umano nel corso della sua vita. I suoi personaggi, sempre molto caratterizzati e interpretati da un gruppo di attori fedeli con i quali lavorò già a teatro, si rapportano ora con la Morte, ora con relazioni sentimentali tormentate, ora con le ingiustizie della vita, ora con l’invecchiamento. Molti dei suoi lungometraggi sono introspettivi, avendo lui avuto un padre pastore col quale il rapporto con è stato sempre facile. Altri sono affreschi medioevali o di una Svezia sovente grigia e cupa.

LE ORIGINI – Ingmar Bergamn nasce a Uppsala nel 1918, da un pastore protestante, una figura con cui si troverà spesso a confrontarsi e che ricorrerà di frequente nel corso della sua opera, percorsa di continuo da riferimenti autobiografici. Inizia la carriera come autore e regista teatrale, e nel 1944 scrive la sua prima sceneggiatura, Spasimo, con cui entra nel mondo del cinema.
I PRIMI FILM – Un anno dopo realizza il primo film come regista, Crisi, che come i successivi Nave per l’India (1947) e Musica nelle tenebre (1947), affronta tematiche sociali del mondo giovanile, facendo denunce con toni aggressivi. Il modello di riferimento di Bergman, in questa fase, è il realismo, da cui si distacca già nel 1948, con Prigione, allorchè inizia a sperimentare tecniche surrealiste ed espressioniste, che utilizza per approfondire i comportamenti e la psicologia umana. Su questa strada si incontrano opere come Un’estate d’amore (1950), Donne in attesa (1952), Monica e il desiderio (1952), Una lezione d’amore (1954), nelle quali si afferma uno studio attento della psicologia femminile, soprattutto – ma non solo – all’interno del rapporto sentimentale.
I CAPOLAVORI – Il film che impone Bergman all’attenzione della critica internazionale è Sorrisi di una notte d’estate (1955), commedia sui rapporti sentimentali, che si serve dei modelli del teatro brillante del Settecento francese per osservare con amarezza l’instabilità dei sentimenti e la complessità dei rapporti umani.
É dell’anno successivo uno dei capolavori bergmaniani, Il settimo sigillo (1956), geniale affresco medievale, nel quale l’autore riflette su vita e morte, sul rapporto fra uomo e Dio, sul senso della propria esistenza, sulla miseria e la nobiltà della natura umana.
Gli stessi temi esistenziali, affrontati alla luce della psicanalisi, sono presenti anche nel successivo Il posto delle fragole (1957), dove si racconta il viaggio nel tempo, nel passato e nella fantasia che un vecchio professore intraprende, al termine della propria vita, per ritrovare un’immagine di sé che si era affannato a rimuovere. Una tragedia filosofica, densa di riferimenti culturali che vanno da Joyce a Proust, da Mann a Kierkegaard, per dimostrare come la morte si nasconda dietro le fugaci apparenze della vita.
Temi religiosi trattati con un’ottica laica: il problema del vuoto che si sostituisce alla perdita della fede, la ricerca di una religiosità intima e non formalistica, l’incomunicabilità fra individui, sono al centro delle sue opere successive, fra cui si segnalano La fontana della vergine (1959), Come in uno specchio (1961) e Il silenzio (1963). É in questo momento che si definisce compiutamente lo stile e gli intenti di Bergman che cerca di svelare il mistero che si cela al di là le apparenze, che nasconde i suoi interrogativi dietro schermi fatti di memoria, sogno, psicosi, che mette sempre più in dubbio l’esistenza di Dio, ma la ripropone ogni volta sotto diverse spoglie, che assumono sembianze differenti: prima la morte, poi il sesso, adesso il male.
É anche in questa fase che Bergman comincia ad essere considerato autore difficile, intellettuale ad oltranza, cupo e destinato a pochi, immagine che sicuramente non smentisce nelle pellicole che gira in seguito – Persona (1966), Il Rito (1969), Passion (1970) – trattati sulla morte, la crudeltà umana, il disfacimento della società e la solitudine, sempre più cupi ed angoscianti. Si tratta comunque di opere profonde ed acute, nelle quali il regista si conferma uno dei massimi interpreti dell’animo tormentato dell’uomo contemporaneo.
GLI ULTIMI LAVORI – Sussurri e grida (1973), Scene da un matrimonio (1974, destinato alla televisione) e Immagine allo specchio (1976) sono forse le opere in cui Bergman conduce alle estreme conseguenze la propria filosofia artistica. Con stile rigoroso, semplice fino alla banalità, va ad analizzare le piccole normalità quotidiane per scoprire che sono tutte il frutto di un’ipocrisia, che diventa tanto più patetica perché inevitabile e pericolosa da svelare, in quanto su di essa si fonda il precario equilibrio che le persone riescono a conquistare. Eliminata la presenza di una divinità, il male di vivere bergmaniano diventa un percorso interiore che distrugge ogni sicurezza su cui si appoggia l’esistenza comune.
L’ultimo film di Bergman, Fanny e Alexander (1983), che segue due pellicole dagli intenti psicanalitici ( Sinfonia d’autunno, 1978 e Un mondo di marionette, 1980), è uno splendido racconto, in gran parte autobiografico, su due adolescenti svedesi di inizio secolo, nel quale il regista sviluppa, con una partecipazione mai invadente, i motivi e le emozioni da cui è partito per comporre le sue opere.
GLI ATTORI CON CUI HA LAVORATO DI PIU’ – Come detto nell’incipit, Bergman ha lavorato assiduamente quasi sempre con la stessa squadra di attori: tra le donne: Ingrid Thulin, Liv Ullman, Harriet e Bibi Andersson, Gunnel Lindblom. Tra gli uomini: Max von Sydow e Gunnar Björnstrand.

(Fonte: Mymovies)
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Pubblicato da Vito Andolini

Appassionato di geopolitica e politica nazionale.

0 Risposte a “INGMAR BERGMAN, IL REGISTA DELL’ANIMO UMANO”

  1. dubbi e inquietudini che gli sono proprie e infatti l'elemento autobiografico nel suo cinema è pregnante, specie in quello degli anni sessanta

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