Il problema Ilva di Taranto è stato rinviato tante, troppe volte. Come la polvere che si mette sotto il tappeto e prima o poi viene fuori. Una polvere nera e nociva, simile a quella rilasciata su case ed auto degli abitanti.
Ovviamente, le responsabilità sono tante e attraversano i decenni. Ma è dagli anni ‘90, quando si è iniziato a porre maggiore attenzione alla questione ambientale, che Ilva di Taranto è cominciato ad essere un caso nazionale. Una patata bollente che i governi avvicendatisi si sono passati l’un l’altro.
Lo scorso anno, un Luigi Di Maio con un sorrisino degno del miglior Berlusconi, diceva che il caso era stato risolto. Una fregnaccia assurda, dato che c’era e c’è un processo in corso. Oltre che una crisi industriale profonda ormai da tempo. Parole irresponsabili ed altamente illusorie nei confronti delle migliaia famiglie il cui futuro dipende dall’impianto tarantino.
Ma stiamo pur sempre parlando di un Ministro del lavoro e dello sviluppo che ha come uniche esperienze lavorative quelle di Stewart allo Stadio San Paolo e nella ditta di famiglia. Ora promosso addirittura a Ministro degli esteri. Che non ho esitato a chiamare Pretty Woman.
Ripercorriamo di seguito la storia dell’ Ilva di Taranto e le principali [sta_anchor id=”ilva”]responsabilità[/sta_anchor].
Ilva di Taranto storia
La storia dell’Ilva di Taranto la ricostruisce bene Panorama. Correva l’anno 1961 quando le Acciaierie di Cornigliano si fondono con l’ILVA – Alti Forni e Acciaierie d’Italia dando vita a Italsider – Alti Forni e Acciaierie Riunite ILVA e Cornigliano che diventerà Italsider nel 1964.
Si tratta di una proprietà pubblica che vuole realizzare il più grande polo industriale del sud Italia. Viene inaugurato così nel 1965 lo stabilimento Italisider di Taranto. In effetti, in breve tempo la fabbrica pugliese diventa il più grande e importante stabilimento di ferro e acciaio d’Europa, il serbatorio che rifornisce non solo il ricco nord Italia, ma mezzo vecchio continente. Dà lavoro, crea ricchezza e occupazione ed è uno dei fiori all’occhiello dell’Italia del boom economico.
Poi arriva la grande crisi degli anni ’80. E nell’ambito delle tante privatizzazioni partite col Governo Dini del 1995, ci finisce pure l’Italsider. Che viene acquisita nel maggio del 1995 dal gruppo Riva, fondato nel 1954 da Emilio con il fratello Adriano e assume il nome attuale di Ilva.
L’operazione è pari a 2.500 miliardi di vecchie lire, per una società la cui valutazione era stata fatta nei termini dei 4.000 miliardi. Non a caso, all’epoca si parla di “svendita dell’Ilva” e si grida allo scandalo e all’inciucio. Insomma, la solita privatizzazione all’italiana.
In concomitanza con questa operazione, iniziano pure ad emergere i primi legami tra l’impatto ambientale del polo siderurgico e l’impressionante numero di casi di tumore (spesso infantile) di abitanti nella zona.
Nel 2012 la magistratura tarantina dispone il sequestro dell’acciaieria per “gravi violazioni ambientali“. Indagati tutti i vertici dell’azienda e i presidenti Emilio Riva (in carica fino al 2010) e il figlio Nicola.
L’azienda viene definita dai giudici “fabbrica di malattia e morte” e l’eco dello scandalo dell’Ilva di Taranto inizia a essere conosciuto a livello mondiale. I periti nominati della Procura di Taranto hanno calcolato che in sette anni sarebbero morte 11.550 persone a causa delle emissioni, in particolare per cause cardiovascolari e respiratorie.
All’Ilva, allora, lavoravano 12.859 persone, più tutti coloro che erano coinvolti dall’indotto della fabbrica. Per tutelare lavoro e produzone industriale il Governo Monti decide di non chiudere lo stabilimento ma di emettere un decreto che autorizzi la prosecuzione della produzione.
A maggio 2013 il gip Patrizia Todisco dispone un maxi-sequestro da 8 miliardi di euro sui beni e sui conti del gruppo Riva, denaro che sarebbe frutto dei mancati investimenti della famiglia Riva in tema di tutela ambientale.
Alla fine dell’anno, però, il maxi sequestro viene annullato dalla Corte di Cassazione e i Riva lasciano il CdA. Il Governo decide di commissariare l’azienda. Il primo commissario nominato è Enrico Bondi, poi affiancato da Edo Ronchi. Un anno dopo i due vengono sostituiti da Piero Gnudi e Corrado Carrubba.
A gennaio 2015 l’azienda, con un’altra legge firmata ad hoc dall’allora governo Renzi, passa in amministrazione straordinaria e i commissari diventano tre: a Gnudi e Carrubba si affianca Enrico Laghi.
Del gennaio 2016, invece, è il bando che invita a candidarsi se interessati ad acquisire l’Ilva. A vincere la gara pubblica è la multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal che assume onori e oneri di rilanciare l’Ilva.
Arcelor Mittal prende in mano il timone dell’ex Ilva con l’obiettivo di rilanciare il polo tarantino. A condizione che il gruppo franco-indiano possa usufruire di un’immunità penale circa i danni del passato.
La mission del colosso non è certo semplice, in quanto deve da un lato fare i conti con una situazione economica mondiale profondamente diversa rispetto agli anni d’oro dell’Ilva di Taranto, e dall’altro affrontare la questione ambientale. Con un processo già in corso.
Nel luglio 2018 la situazione peggiora, quando l’allora ministro per lo sviluppo economico Luigi Di Maio chiede di avviare un’indagine circa la legittimità della gara d’assegnazione dell’Ilva a Ancelor Mittal. Ne fa una questione di principio appena insediatosi nel suo complicato Ministero. Che ha voluto accollarsi per prendersi tutti i meriti dello scellerato Reddito di cittadinanza.
Si parla di gara viziata, sebbene l’Avvocatura dello Stato sottolinei che non esistono gli estremi per annullarla. Di Maio rilancia e in conferenza stampa, 23 agosto 2018, dichiara:
“Se oggi, dopo 2 anni e 8 mesi, esistessero aziende che volessero partecipare alla gara, noi potremmo revocare questa procedura per motivi di opportunità. Oggi non abbiamo aziende che vogliono partecipare, ma se esistesse anche solo una azienda ci sarebbe motivo per revocare la gara”.
Il Governo Conte non si ferma qui. Nel del dl crescita di maggio 2019, si avanza l’ipotesi di eliminare lo scudo penale e di mettere i vertici Ilva, presenti e passati, di fronte alle loro presunte negligenze e responsabilità in termini di vita umana.
Ancelor Mittal molla il colpo: “Non si possono cambiare le carte a partita in corso” dice nel novembre 2019 rimettendo la patata bollente nelle mani del Conte bis.
Ilva di Taranto, cos’è lo scudo penale
Cos’è lo scudo penale nel caso Ilva di Taranto? E’ un provvedimento creato ad hoc per garantire protezione legale sia ai gestori dell’azienda (i commissari), che ai futuri acquirenti relativamente all’attuazione del piano ambientale della fabbrica.
Evitare, cioè, che attuando il piano ambientale, normato da un Dpcm di settembre 2017, i commissari o i futuri acquirenti del siderurgico restassero coinvolti in vicissitudini giudiziarie derivanti dal passato.
Un provvedimento tutto sommato ragionevole, pensato proprio per incentivare le multinazionali a credere nell’impianto produttivo. Del resto, nel 2016 come Ministro dello sviluppo c’era Carlo Calenda (ora uscito dal Pd), il quale quando aveva assunto quel ruolo, aveva lasciato i principali esperti di vertenze sindacali al loro posto. Proprio perché erano lì da 15 anni.
Invece Di Maio, in nome della rivoluzione, ha voluto resettare tutto. Con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti (pensiamo anche al caso Mercatone Uno e Whirpool).
Ilva di Taranto perché chiude
Perché l’Ilva di Taranto chiude? In realtà, la rimozione dello scudo penale non è il problema principale che invoglia Ancelor Mittal a defilarsi da Ilva.
Come riporta Il Post, le condizioni poste dal gruppo franco-indiano sono tre:
- ripristino dello scudo legale
- autorizzazione a licenziare circa 5 mila dipendenti di ILVA
- ridurre la produzione-obiettivo da sei a quattro milioni di tonnellate
- l’approvazione di una legge che permetta di tenere aperti gli altoforni sotto esame della magistratura per ancora 14-16 mesi.
Conte ha definito le condizioni poste da ArcelorMittal «inaccettabili», ma intanto le trattative proseguono. Il Premier, alla fine dell’incontro di ieri coi sindacati, è apparso visibilmente preoccupato. Senza quel solito sorrisino da Playboy con cui siamo abituati a vederlo.
Ilva di Taranto rischi
Quali sono i rischi per i dipendenti dell’Ilva di Taranto? Intanto, che metà di loro (5mila) siano licenziati. Dal punto di vista legale, ArcelorMittal è vincolata all’ILVA da un contratto di affitto che, se tutto dovesse andare bene, si trasformerà in acquisizione nel giro di un paio d’anni.
Il contratto era stato firmato alla fine del 2018, dopo una lunga trattativa. Con il contratto, ArcelorMittal si impegnava a un investimento complessivo di circa 4 miliardi di euro nell’impianto, tra interventi di bonifica e messa a regola degli impianti e nuovi investimenti, e a mantenere tutti i dipendenti della società.
Al momento dell’acquisto, l’acciaieria si trovava da tre anni in una gestione commissariale dopo l’estromissione dei precedenti proprietari, la famiglia Riva, accusata di aver compiuto numerosi reati ambientali nella sua gestione dell’impianto.
Il caso è iniziato questa settimana quando i legali di ArcelorMittal hanno depositato al tribunale di Milano l’atto formale con cui hanno iniziato le procedure per uscire dal contratto. Nel documento sono elencate le stesse ragioni per interrompere il contratto che sono state presentate al governo ed è scritto esplicitamente che «anche se la protezione legale fosse ripristinata, non sarebbe possibile eseguire il contratto».
In teoria, scrive il Corriere della Sera, 25 giorni dopo la deposizione dell’atto ArcelorMittal avrebbe diritto a lasciare l’azienda, ma difficilmente il tribunale di Milano avrà già deciso per allora se effettivamente le condizioni sono cambiate così tanto da rimuovere il vincolo di ArcelorMittal. Ci vorranno mesi per arrivare a una decisione e se ArcelorMittal dovesse disimpegnarsi prima rischierebbe di dover tornare dentro l’azienda e dover pagare pesanti penali.
Al momento gli esperti sono divisi sull’aspetto legale della questione e non è chiaro se effettivamente quanto sostenuto da ArcelorMittal costituisca una giustificazione sufficiente per interrompere il contratto.
Non sarà semplice raggiungere un accordo. Come molti esperti fanno notare da quasi un anno, nell’attuale situazione economica internazionale l’ILVA non è più un buon affare per ArcelorMittal. L’azienda ha tutto l’interesse a uscire dall’investimento e potrebbe considerare un successo anche la chiusura dell’impianto, che eliminerebbe la possibilità del subentro di un suo concorrente.
Qualora Ancelor Mittal dovesse l’asciare l’Ilva di Taranto e non dovesse essere trovato un sostituto, si passerebbe ad un nuovo commissariamento. E ciò provocherebbe il dispendio di altri miliardi di euro, come sta avvenendo da tempo con Alitalia. Altra vertenza che sta per esplodere per l’ennesima volta.
Ilva di Taranto, di chi sono colpe crisi
Di chi sono le colpe della crisi dell’Ilva di Taranto? Trattandosi di un impianto siderurgico altamente inquinante, è chiaro che la prima responsabilità è di chi non ha mai obbligato i suoi proprietari ad una riconversione green degli impianti.
Purtroppo, è inutile essere ipocriti, l’attenzione verso l’ambiente è iniziata solo a partire dagli anni ‘90. Quindi si sono persi 30 anni e proprio quelli della gestione statale. Ai Riva poi non è stato richiesto altrettanto e dopo una decina di anni, ci ha dovuto pensare la magistratura a fare luce sui tantissimi morti e malati di cancro della zona circostante.
Anche il Governatore Nichi Vendola risulta indagato per essere stato troppo morbido nei confronti della precedente proprietà. Peraltro, nel 2013 è anche spuntato un audio di una telefonata nel quale ride mentre parla con un membro del governo.
Ma Vendola si è sempre difeso da entrambi le accuse. Ora vive in Canada col proprio compagno e figlio. Lontano da quella Puglia bella ma anche inquinata, che ha governato – tutto sommato anche bene – per 10 anni.
Ovviamente i vecchi proprietari hanno soprasseduto su certe tematiche e l’ultimo capolavoro è stato quello del Governo Conte di voler accollare le responsabilità ambientali pure agli ultimi arrivati. Appunto Anchelor Mittal.
Insomma, una serie di errori e mancanze che hanno portato alla tragedia eco-sociale di oggi.
Ilva di Taranto numero morti tumore
Quante persone sono morte a causa dell’Ilva di Taranto? Come riporta La Stampa, tra i lavoratori impiegati nello stabilimento ex Ilva di Taranto si registra il 500% di casi di cancro in più rispetto alla media della popolazione generale della città, non impiegata nello stabilimento.
È questa l’ultima stima, pubblicata nel 2018, dell’Osservatorio nazionale amianto (Ona), a conferma del dato allarmante diffuso oggi dall’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro secondo cui la maglia nera per il numero assoluto di malattie cancerogene imputabili all’attività lavorativa spetta appunto a Taranto, con il 70% dei tumori denunciati correlato al settore metalmeccanico.
Anche secondo i dati Ona, Taranto rappresenta dunque una «emergenza» con il «50% di tumori in più registrato pure tra gli impiegati dello stabilimento ex Ilva, che sono stati esposti solo in modo indiretto». L’Osservatorio stima che in Puglia, in generale, siano «circa 5.000 i morti causati o concausati dall’esposizione all’amianto nel periodo 1993/2015.
Dunque circa 220 l’anno, per le sole patologie asbesto correlate. E statisticamente i tumori polmonari sono circa il doppio dei mesoteliomi, a cui vanno aggiunte le altre patologie causate dalla diossina e dagli altri inquinanti.
Per la Regione Puglia, rileva l’Ona, i mesoteliomi ufficialmente registrati sono stati 1.191, nel periodo tra il 1993 e il 2015, pari al 4,4% di quelli registrati nel Paese, nel 67,2% dei casi causati da esposizione all’amianto di tipo professionale. I morti per mesotelioma nella città di Taranto tra il 2006 e 2011, sottolinea l’Osservatorio, rappresentano quindi la metà di quelli censiti nell’intera Puglia dal Registro regionale.
Centoventuno morti solo di mesotelioma, di cui 99 uomini e 22 donne. Ed ancora: a Taranto, secondo le stime Ona, ci sono 25 casi di mesotelioma l’anno, con un’incidenza superiore di quattro volte ai dati di attesa. A Bari, invece, le rilevazioni Ona fino al dicembre 2018 hanno appurato «160 casi di mesotelioma causati dall’esposizione dell’ex Fibronit», con una incidenza «in crescita» ed una media di «circa 20 nuovi casi ogni anno».
Un quadro preoccupante, quello relativo a Taranto in particolare, confermato pure dall’ultimo rapporto Sentieri dell’Istituto superiore di sanità, che prende in esame i dati relativi a 45 siti di interesse nazionale e regionale per le bonifiche, inclusa Taranto.
Chi vive nei siti contaminati, rileva il Rapporto, ha infatti un rischio di morte più alto del 4-5% rispetto alla popolazione generale. E questo, in un periodo di 8 anni, si è tradotto in un eccesso di mortalità pari a 11.992 persone, di cui 5.285 per tumori e 3.632 per malattie dell’apparato cardiocircolatorio. E vivere in siti contaminati comporta anche un aumento di tumori maligni del 9% nella fascia di età tra 0 a 24 anni.
Ancelor Mittal chi è
Chi è Ancelor Mittal? Come riporta Wikipedia, ArcelorMittal S.A. è una multinazionale produttrice di acciaio con sede nella città di Lussemburgo. È stata fondata nel 2006 dall’acquisizione e dalla fusione di Arcelor da parte della Mittal Steel di proprietà indiana.
ArcelorMittal è il maggiore produttore mondiale di acciaio, con una produzione annuale di acciaio grezzo di 92,5 milioni di tonnellate al 2018. È al 123 ° posto nella classifica Fortune Global 500 2017 delle più grandi società del mondo.
La società è impegnata in ricerca e sviluppo, miniere e acciaio. Nel 2016 ArcelorMittal ha prodotto circa 90 milioni di tonnellate di acciaio. A partire da maggio 2017, la società ha prodotto 200 tipi unici di acciaio per scopi automobilistici, metà dei quali sono stati introdotti dal 2007. Tra le varietà di acciaio ci sono Usibor 2000, che la società ha annunciato a giugno 2016 e rilasciato nel corso di quell’anno.
Al momento del rilascio, si diceva che l’acciaio automobilistico ad alta resistenza fosse circa un terzo più forte di altri acciai allora disponibili per la produzione automobilistica.