L’analisi di 600+ registrazioni con il supporto dell’Intelligenza Artificiale svela inaspettate complessità nella comunicazione tra elefanti
Fin dalla nascita agli esseri umani viene assegnato un nome individuale, che li distingue (più o meno efficacemente) dagli altri membri della propria comunità e della società in generale.
Inizialmente si pensava che ciò fosse un comportamento unico della specie, necessario per gestire una complessa struttura sociale (o, al contrario, che tale complessità sociale fosse il risultato della complessità comunicativa), ma in anni recenti è stato dimostrato come anche questa fosse semplice supponenza da parte nostra.
Infatti, sia i delfini che alcune specie di uccelli, come i pappagallini groppaverde (Forpus passerinus), sono in grado di chiamare individui specifici, imitando il suono dell’animale che stanno chiamando.
Ora si è scoperto che gli elefanti hanno fatto un passo ulteriore nel loro cammino evolutivo: pur essendo capaci di imparare ad imitare i suoni, pare che preferiscano chiamarsi tra di loro usando suoni arbitrari, proprio come i nomi impiegati dagli esseri umani.
La preparazione dell’esperimento
La biologa ed etologa Joyce Poole fa parte della piccola organizzazione ElephantVoices, dedita allo studio e alla protezione degli elefanti. Anni fa, analizzando i richiami di quelli della savana africana (Loxodonta africana), si accorse di un aspetto particolare.
Quando un esemplare emetteva un barrito di richiamo, Poole notò che all’interno di un gruppo di simili uno in particolare alzava la testa, si metteva in ascolto e poi rispondeva, mentre i restanti sembravano semplicemente ignorare il richiamo.
Per confermare il suo sospetto che tali richiami potessero in qualche modo essere individuali, la ricercatrice registrò più di 600 casi del genere e li inviò al collega Michael Pardo e al suo gruppo presso la Colorado State University.
Le registrazioni includevano sia barriti di contatto, utilizzati quando il destinatario è fuori portata visiva, che di saluto, usati quando un elefante si avvicina a un altro; in tutti i casi, era specificato quale esemplare effettuava il richiamo e quale rispondeva.
L’Intelligenza Artificiale a supporto
A questo punto, Pardo e colleghi si rivolgono all’ormai onnipresente Intelligenza Artificiale (IA): i dati vengono forniti in input a un algoritmo di machine learning, cioè un programma che impara autonomamente grazie a numerose sessioni di pratica (ne ho parlato qui).
Più precisamente, è stato usato un modello chiamato foresta casuale (random forest) per verificare la possibilità di predire il destinatario del richiamo basandosi solo sulla struttura acustica dello stesso, in cerca di un qualcosa al suo interno assimilabile a un nome.
L’IA è riuscita a individuare correttamente il destinatario del richiamo nel 20% dei casi, il che può sembrare poco, ma in realtà è molto meglio che affidarsi alla sorte (in una situazione del genere, si indovinerebbe circa il 7,5% delle volte).
Per confermare la bontà dei risultati, i ricercatori hanno quindi riprodotto alcuni dei barriti in presenza di coppie di elefanti che includevano il destinatario del richiamo: costui si avvicinava più rapidamente all’altoparlante, emettendo barriti di risposta più velocemente e in numero maggiore rispetto all’altro esemplare.
In sostanza, pare proprio che il richiamo non solo contenga il “nome” del destinatario, ma questi sia anche in grado di riconoscerlo, come dimostrato dal suo comportamento più attivo in risposta ad esso.
I limiti e il futuro della ricerca
Nonostante i risultati rivoluzionari, che dimostrerebbero che gli elefanti sono l’unico animale oltre all’uomo a inventare e usare nomi, la ricerca è ancora nella fasi iniziali e, come tale, presenta quindi dei limiti.
Ad esempio, dagli esperimenti non è possibile dedurre se elefanti diversi usano lo stesso nome per un determinato esemplare oppure se ognuno ne impiega uno distinto, un po’ come noi a volte chiamiamo altre persone con dei soprannomi.
Inoltre, Poole sospetta che gli elefanti abbiano dei nomi anche per i luoghi, che “inserirebbero” nel barrito che indica al loro gruppo di muoversi, in modo da rendere il comando più specifico; anche tale ipotesi va dimostrata con test futuri.
Insomma, c’è ancora tanto lavoro da fare, ma quanto appena scoperto è comunque un primo passo importante per avvicinarci non solo alla comprensione della comunicazione tra questi affascinanti animali, ma anche della loro complessa struttura sociale.
(Originariamente pubblicato su Storie Semplici. Il titolo dell’autore potrebbe essere modificato dalla redazione)