C’ERA UNA VOLTA L’INDUSTRIA ITALIANA

UNA CRISI INDUSTRIALE GLOBALE ORMAI TRENTENNALE DA NOI AGGRAVATA DA UNA PESSIMA CLASSE POLITICA E INDUSTRIALE
Con la crisi petrolifera del ’74, innescata dai Paesi petroliferi aderenti all’OPEC, si innescò a livello globale anche inevitabilmente la crisi della grande industria, che si acuì negli anni ’80 per diventare irreversibile nei decenni successivi. Ad essa si sostituì nel primato dei Pil nazionali il settore dei servizi, complice anche una rivoluzione tecnologica partita dagli anni ’90 e ancora in piena ascesa.
L’Italia ha risentito della crisi industriale più di ogni altro Paese occidentale, poiché i governi nazionali non hanno saputo fare altro che elargire fondi a pioggia, coccolando e viziando gli imprenditori italiani; i quali, non appena i fondi sono terminati, non hanno esitato a scappare in Paesi offerenti manodopera a basso costo e un regime fiscale molto più conveniente. Anche se, quest’ultimo aspetto, è forse anche giusto. Nel nostro Paese la pressione fiscale è giunta ormai al 55%. Basta citare i dati degli ultimi 5 anni: mezzo milione di posti di lavoro persi nell’industria.

IL DECLINO ITALIANO – Fino agli anni settanta eravamo leader mondiali per produttività, ma oggi siamo il fanalino di coda fra i paesi più industrializzati. Negli ultimi decenni abbiamo letteralmente abbandonato settori in cui primeggiavamo, come l’informatica e l’elettronica di consumo. E siamo usciti anche dal salotto buono della chimica. L’Italia resta pur sempre la seconda manifattura d’Europa, ma oggi sconta la totale assenza di una politica industriale, con gravi costi economici e sociali. I Paesi che meglio hanno reagito alla crisi e quelli che meglio stanno agganciando il treno della ripresa sono quelli che in questi anni si sono dotati di una politica industriale, come la Germania e molti Paesi emergenti. In Italia, però, negli ultimi vent’anni abbiamo parlato di tutto fuorché di industria.
UN PASSATO GLORIOSO – Eppure l’Italia ha conosciuto una grande stagione di politica industriale, che ha dato benefici anche al sud. Nel 1961 per volontà del fondatore dell’Eni Enrico Mattei, nacque in Basilicata il polo chimico della Val Basento. Un sito che arrivò ad occupare contemporaneamente più di 6mila lavoratori. Oggi se ne contano appena mille. Eppure si trattava di un insediamento industriale d’avanguardia, che per primo in Italia produsse le bottiglie Pet. Quello che successe alla chimica, accadde anche ad altri settori. L’informatica è l’esempio più lampante. La Apple con i suoi nuovi prodotti garantirà agli Stati Uniti mezzo punto di Pil.
Un tempo anche l’Italia aveva la sua Apple: era l’Olivetti. Leader non solo nella produzione di macchine da scrivere, ma anche nel nascente mondo dell’informatica. Quinta potenza manifatturiera al mondo fino al 2007, l’Italia è oggi ottava. E al tavolo del ministero dello sviluppo economico ci sono più di cento vertenze aperte. In parole povere, più di cento aziende medio grandi che rischiano di chiudere. Negli ultimi mesi sono esplose crisi come quella dell’Ilva e dell’Alcoa. E sono solo la punta di un iceberg che ha radici più profonde. L’Ilva occupa quasi 13 mila addetti, realizza il 75% del Pil di Taranto e il 20% dell’export della Puglia. Il fatto che si debba drammaticamente scegliere fra il diritto alla salute e quello al lavoro è sicuramente figlio della mancanza di una politica industriale.
COSA UCCIDE LE IMPRESE – In Italia l’energia per le imprese costa il 35% in più della media Ue. Le nostre aziende pagano 10 miliardi di euro all’anno in più dei loro competitor europei. Ciò significa che un piccolo imprenditore italiano spende per la propria bolletta energetica 2mila e duecento euro più di un altro imprenditore del vecchio continente. L’ultimo piano energetico del nostro Paese risale al 1988. Anche se l’Italia è ai primi posti europei per gli investimenti sulle fonti rinnovabili come il solare, mentre per l’eolico siamo ancora indietro.
Poi ci sono le tasse, diventate una vera emergenza. Il carico fiscale sulle imprese ha raggiunto il 57%, venti punti in più della Germania. Sulle imprese gravano più tasse, ma i lavoratori italiani guadagnano la metà dei loro colleghi tedeschi. Se l’Italia vuole continuare a giocare la partita della competizione industriale e non rischiare che i gioielli di famiglia finiscano in mani straniere deve operare delle scelte.
Ricerca, sviluppo,innovazione, infrastrutture, tasse su imprese e lavoratori sono dunque nodi irrisolti non più rinviabili perché l’Italia continui ad essere una potenza industriale. Eppure abbiamo avuto un imprenditore al governo per 9 degli ultimi 20 anni, e non ha fatto nulla in favore delle imprese.
(Fonte: Fainotizia)
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Pubblicato da Vito Andolini

Appassionato di geopolitica e politica nazionale.

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